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Benedetto, le Dimissioni. Valide o Nulle? Sánchez Sáez Risponde a Siscoe.

gen 11, 2023

Carissimi StilumCuriali, la pubblicazione dell’articolo di Robert Siscoe su Stilum Curiae ha provocato discussione e reazioni. Riceviamo e come contributo alla discussione pubblichiamo questa risposta da parte del prof. Antonio José Sánchez Sáez, dell’Università di Siviglia. Buona lettura.


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LA MOLTO RAGIONEVOLE E SOSTENIBILE TESI DELLA NULLITÀ DELLE DIMISSIONI DI BENEDETTO XVI: CONFUTAZIONE LEGALE DI ALCUNI ERRORI DI ROBERT SISCOE


“Io qui devo però replicare che anche un padre smette di fare il padre. Non cessa di esserlo, ma lascia le responsabilità concrete. Continua ad essere padre in un senso più profondo, più intimo, con rapporto e una responsabilità particolari ma senza i compiti del padre…”. (Per quanto riguarda il papa)… “Se si dimette, mantiene la responsabilità che ha assunto in un senso interiore, ma non nella funzione”

Benedetto XVI, “Ultime conversazioni”, p. 33

(Benedetto) “è stato talmente audace da aprire la porta a una nuova fase, per quella svolta storica che nessuno cinque anni fa si sarebbe potuto immaginare. Da allora viviamo in un’epoca storica che nella bimillenaria storia della Chiesa è senza precedenti… Molti continuano a percepire ancor oggi questa situazione nuova come una sorta di stato d’eccezione voluto dal Cielo… Perciò, dall’undici febbraio 2013 il ministero papale non è più quello di prima. È e rimane il fondamento della Chiesa cattolica; e tuttavia è un fondamento che Benedetto XVI ha profondamente e durevolmente trasformato nel suo pontificato d’eccezione (Ausnahmepontifikat)”

Mons. Georg Gänswein, in Discorso tenuto il 21 maggio 2016 alla presentazione in Vaticano del libro “Oltre la crisi della Chiesa: Il pontificato di Benedetto XVI”, di Roberto Regoli

Vorrei confutare una serie di affermazioni fatte da Mr. Robert Siscoe, autore cattolico norteamericano che pubblica sul blog Onepeter5, il passato sabato 7 gennaio nel suo Blog “Stilu Curiae”, in un articolo intitolato “Munus, ministerium e amenità variare. Breve confutazione di qualche teoria insostenibile”.

Per cominciare, vorrei inquadrare queste mie riflessioni all’interno della situazione di assoluta eccezionalità che l’apparente rinuncia di Papa Benedetto ha comportato. Ricordiamo che lo stesso Mons. Gänswein ha detto in 2016 che dalle “dimissioni” di Benedetto XVI viviamo in un’epoca storica che non si è verificata in tutta la storia della Chiesa, e che, da allora, viviamo in uno “stato di eccezione”, espressione che rimanda direttamente al grande costituzionalista tedesco Carl Schmitt, una situazione che tutti i giuristi sanno che accade con l’apparire di cause

eccezionalmente gravi (esterne -come le guerre-, ma anche interne -come una rivoluzione interna, una guerra civile o un colpo di Stato).

Quindi mettiamoci al lavoro… Nel suo articolo, Mr. Siscoe cerca di scongiurare quello che chiama la “teoria insostenibile” di coloro che ritengono che le dimissioni di papa Benedetto XVI siano state nulle e che, quindi, abbia continuato ad essere il papa regnante della Chiesa cattolica fino alla sua morte. Le motivazioni addotte da Mr. Siscoe presentano gravi vizi di Diritto e ad esse vorrei rispondere ringraziando il sig. Marco Tosatti per lasciarme sprimermi nel sul suo Blog.

PRIMO ERRORE: MR. SISCOE RITIENE CHE LE DIMISSIONI DI BXVI DAL MINISTERO COMPORTAVANO ANCHE LE DIMISSIONI DEL MUNUS, QUANDO L’EFFETTO E’ PROPRIO CONTRARIO

Mr. Siscoe parte da una premessa errata: ci attribuisce la tesi che noi crediamo che Benedetto XVI abbia validamente rinunciato al suo ministero di Vescovo di Roma ma abbia mantenuto l’ufficio o “munus”.

Questo non è corretto. Dal punto di vista puramente giuridico, non si può sostenere che solo il ministero petrino possa essere validamente rinunciato, mantenendo il munus, poiché entrambi gli elementi sono inscindibili, come giustamente afferma l’autore di OnePeter5.

Ma la conclusione che Mr. Siscoe ne trae è proprio l’opposto di quanto si dovrebbe trarre in Diritto: egli ritiene che le dimissioni di BXVI dal ministero implichino anche la rinuncia del munus. No. In Diritto l’effetto è esattamente opposto: poiché una cosa non può essere separata dall’altra, una rinuncia come quella fatta da Benedetto XVI solo dal ministero (e non dal munus o dall’ufficio, come richiesto dal can. 332.2 CIC) è nulla e, pertanto, deve intendersi che egli non abbia rinunciato neppure al munus. E questo, perché munus e ministerium sono cose diverse in senso tecnico- giuridico canonico, come cercherò di spiegare in seguito.

SECONDO ERRORE: SICCOME MR. SISCOE RITIENE CHE BENEDETTO XVI RINUNCIA ALL'”ESERCIZIO ATTIVO DEL MINISTERO”, SI SOLLEVAVA DALLA SUA GIURISDIZIONE E, QUINDI, CESSA FORMALMENTE DI ESSERE PAPA

Certamente il papato è un potere di giurisdizione, perché è un potere giuridico, non di ordine o sacramentale. Ma la giurisdizione non è attribuita al ministero o all’esercizio attivo della carica ma alla sua elezione a papa e all’accettazione dell’ufficio petrino.

Così, ad esempio, un avvocato può essere un avvocato praticante o non praticante, ma è pur sempre un avvocato. Oppure, seguendo l’esempio fornito dallo stesso Benedetto nel libro firmato dal suo biografo Peter Seewald “Ultime consersazioni”, con cui intitoliamo questo articolo, per descrivere la sua situazione giuridica dopo le “dimissioni”: la persona che è padre ma non è esercita la paternità, abbandonando le sue responsabilità specifiche, continua ad essere padre.

Come si vede, alla base di questi esempi c’è una concezione dell’ufficio- munus-carica-posizione come status ontologico, indipendentemente dal fatto che sia effettivamente esercitato o meno.

La stessa cosa avviene negli uffici ecclesiastici. “Munus” (ufficio) non è la stessa cosa di “ministerium” (l’esercizio di tale ufficio). Così, molti papi della storia, per età o incapacità, non hanno potuto svolgere i vari ministeri propri del papato, ma hanno continuato ad essere papi perché avevano il potere di giurisdizione (munus, ufficio).

PERCHÉ I TERMINI MINISTERIUM E MUNUS SONO DIVERSI IN SENSO TECNICO-GIURIDICO?

Tradizionalmente, i termini “ministerium” e “munus” erano sinonimi. Così, il CIC del 1917 parla dei diversi ministeri ecclesiastici o divini: suddiaconi, diaconi, sacerdoti, vescovi. O, più recentemente, la Costituzione Universi Dominici Gregis, che parla del ministero petrino o ministero del pontefice.

Così, l’espressione “ministero” è stata usata come sinonimo di “servizio”, cosa che è tipica dei “ministri” della grazia, cioè il vescovo, il sacerdote e il diacono, perché amministrano i sacramenti.

L’espressione “ufficio”, invece, aveva scarse radici storiche dal punto di vista giuridico-canonico, come testimonia il fatto che il CIC del 1917 la usava poco.

Tuttavia, negli ultimi decenni si è fatta strada nel Diritto canonico una distinzione giuridica più precisa tra “ministerium” e “munus”, iniziata nel Decreto Presbyterorum Ordinis, sul Ministero e la vita dei presbiteri, di Paolo VI (1965), e che finalmente si cristallizzò definitivamente nel CIC del 1983, norma fondamentale e basilare del Diritto canonico.

Da allora, dunque, si può parlare di un significato giuridico diverso per entrambe le espressioni, sebbene possano continuare ad essere sinonimi anche da un punto di vista non tecnico-giuridico ma mistico.

Così, possono quindi essere usati come sinonimi in senso astratto, figurato o allegorico, come espressione o manifestazione proprie (quello di essere papa, vescovo, sacerdote o diacono) dell’esercizio dell’autorità dell’ufficio unico di Cristo come Capo della Chiesa e Pastore. Si veda che significato del termine al numero 6 del Decreto Presbyterorum Ordinis:

Esercitando la funzione di Cristo capo e pastore per la parte di autorità che spetta loro, i presbiteri, in nome del vescovo, riuniscono la famiglia di Dio come fraternità viva e unita e la conducono al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo (secondo l’espressione della Costituzione dogmatica del CVII “De Ecclesia”, la sottolineatura è nostra). Per questo ministero, così come per le altre funzioni, viene conferita al presbitero una potestà spirituale, che è appunto concessa ai fini dell’edificazione.

In altre parole, per “ministero” si intenderebbe qui ogni partecipazione dei diversi gradi del sacramento dell’ordine (diaconi, presbiteri, vescovi) all’unico ufficio di Cristo come Capo del corpo mistico che è la Chiesa, per il quale essi deve essere investito del “potere spirituale”, che è il munus(rispetto a diaconi, presbiteri e vescovi) e del “potere giurisdizionale” che è il munus nel caso del papa. Dunque, in questo senso, si può parlare di “ministero” dei diaconi, di “ministero” dei presbiteri, di “ministero” dei vescovi e, infine, di “ministero” del papa, ma nella misura in cui ciascuno di essi esercita in modo diverso, secondo la propria posizione, l’unico ufficio, che è quello di Cristo, al quale partecipano in diverso grado, e per il quale richiedono di aver ricevuto il munus.

Ma, al di là di questo significato mistico, lo ripetiamo, il Diritto canonico ha distinto in modo più preciso e tecnico tra ministero e ufficio.

Così, “ufficio” è la traduzione canonica nel linguaggio volgare della parola “munus”. È ufficio ecclesiastico qualsiasi incarico stabilmente costituito che deve essere esercitato per uno scopo spirituale (can. 145 CIC).

Secondo il Dizionario di Diritto canonico (https://www.lexicon- canonicum.org/materias/organizacion-eclesiastica/parte-general-de-la- organizacion-eclesiastica/oficio-eclesiastico/), l’ufficio consiste, quindi, di in uno strumento istituzionale per dare stabilità a un certo insieme di poteri e attribuzioni, che lo configurano come una realtà giuridica permanente, diversa dalla persona che ne è in ogni momento titolare.

Pertanto, quando una persona è nominata a un ufficio, i suoi obblighi e diritti sono già definiti dalla legge; e cessato il titolare, la carica resta vacante ma non si estingue, in attesa della nuova nomina.

Alcuni uffici sono di diritto divino, come quello di Romano Pontefice e quello di Vescovo diocesano.

La perdita dell’ufficio ecclesiastico (munus) significa cessare di esserne titolare, e quindi dei diritti e doveri che esso comporta. Pertanto, chi rinuncia al munus si dimette dall’incarico. La rinuncia al pontificato è un atto giuridico canonico, secondo il significato tecnico indicato nel can. 332, comma 2 CIC, che esclude ogni significato mistico o allegorico. Pertanto, chi non rinuncia al munus o rinuncia solo al ministero, non si dimette validamente a norma del Diritto e, pertanto, rimane in carica.

Tuttavia, il ministero è un’attività. Il ministero è qualsiasi attività diretta al servizio delle anime, in vista della salvezza (https://www.lexicon- canonicum.org/?s=ministerio). Il termine è usato principalmente in riferimento all’attività o ai compiti del clero, che è il suo significato più proprio e presuppone la ricezione del sacramento dell’ordine. Così, una volta che qualcuno è stato ordinato, riceve l’ufficio di diacono, di sacerdote, o quello di vescovo, o quando è così eletto, quello di papa. Ma l’esercizio ordinario di quel munus, posizione o ufficio richiede l’adempimento di alcuni compiti o funzioni, che chiamiamo ministeri.

Il concetto di ministero comprende la collaborazione e la sostituzione da parte dei laici nel ministero dei pastori, in determinate circostanze, mediante l’istituzione nei cosiddetti ministeri laicali, cioè alcuni compiti che potrebbero svolgere il sacerdote ma che possono essere svolti dal laici (https://www.lexicon-canonicum.org/materias/derecho-canonico-de-la- persona/ministerio/)

La norma che meglio ha distinto in tempi recenti tra munus e ministerii è, come abbiamo detto sopra, il Decreto Presbyterorum Ordinis, sul Ministero e la vita dei sacerdoti, di papa Paolo VI, datato 1965.

In questo Decreto, nei suoi numeri 5, 6, 11, 17 e 20, si parla del munus come equivalente a “posizione” o “ufficio”, e in altri come 4, 5, 6, 8, 10, 11, 20 … parla dei compiti del sacerdote in termini di “ministeri”, per riferirsi al pieno esercizio del sacerdozio o ai diversi tipi di compiti che l’ufficio sacerdotale comporta.

Questo Decreto, quindi, parte dal presupposto che il munus può essere esercitato in molti modi o ministeri (ministerii). Almeno, attraverso i

ministeri compresi nei suddetti numeri del Decreto: “ministero della parola”, “ministero dei sacramenti”, “ministero liturgico”, “riunire la famiglia di Dio” e “condurla a Dio Padre mediante Cristo nello Spirito”, “opere del ministero”, “ministero dei poveri”, e “altri ministeri ecclesiastici” o “altre funzioni del sacerdote”… Tutti insieme costituiscono il “ministero sacerdotale”, che sono le funzioni del presbitero, una volta ordinato come tale (officium). L’ufficio petrino ha anche altri ministeri propri che integrano quelli dei sacerdoti e dei vescovi: dirigere la Chiesa universale, congregarla, santificarla, custodirla, confermarla nella fede, ecc.

E quella distinzione tecnico-giuridica è stata finalmente stabilita nel CIC del 1983, che usa l’espressione “munus” per indicare l’oggetto o il contenuto degli uffici ecclesiastici, cosa per la quale il CIC del 1917 usava solo l’espressione ministeri ecclesiastici.

Can. 145 CIV 1983. 1. L’ufficio ecclesiastico è qualsiasi ufficio, stabilmente costituito per disposizione divina o ecclesiastica, che deve essere esercitato per un fine spirituale.

Can. 145 CIC 1983. 1. Officium ecclesiasticum est quodlibet munus ordinatione sive divina sive ecclesiastica stabiliter constitutum in finem spiritualem exercendum.

Da questo canone essenziale (canone 145), il CIC del 1983 ha proiettato lo stesso significato di munus come posto-ufficio-carica, temporaneo o permanente, in riferimento, v. gr., al lettore (can. 230.2) e ad altri incarichi laicali temporanei o permanenti (can. 231), agli insegnanti (can. 253), o ad altri incarichi che devono essere assunti dai sacerdoti (can. 274) ai vescovi (canone 334), al collegio dei vescovi (canone 337), al sinodo dei vescovi (canone 347), ai cardinali che ricevono ordini dal papa (canone 358), ecc.

Al contrario, il CIC del 1983 usa il termine “ministero” in riferimento

all’attività o all’esercizio di un ufficio o di un ufficio (ad esempio, cann. 41, 230.3, 232, 233.1, 233.2, 237.1, 245.1, 249, 252. 1, 256.1, 271.1, 271.2, 276.1, 278.2, 281.1, 324.2, 385, 386.1, 392.2, 509.2, 545.1, ecc.). Per una migliore comprensione della differenza semantica tra i due concetti nel CIC del 1983, rimandiamo all’ottimo libro dell’avvocata colombiana Estefanía Acosta, “Benedetto XVI, Papa emerito?”.

Prova molto importante di questa distinzione è che nientemeno che il canone 332.2 dello CIC richiede, per la valida rinuncia al pontificato, la rinuncia al munus, cioè all’ufficio o all’incarico, non al ministero o all’attività.

Detto canone dice che il papa, per rinunciare validamente al pontificato, deve liberamente rinunciare «al suo ufficio» (muneri suo) e che tale rinuncia «venga debitamente manifestata» (rite manifestetur), cioè pubblicamente, e a norma delle forme che questo canone richiede (cioè la rinuncia al munus). A proposito, le cause che il papa deve addurre per una valida rinuncia devono essere gravi (per analogia con il canone 401.2 CIC), cosa che non si accorda con le ragioni di esaurimento addotte da Benedetto, il che ci sta indirizzando verso altri motivi di cui non puoi parlare.

Questi nuovi requisiti canonici per la rinuncia pontificia sono stati aggiunti dalla riforma del CIC del 1983, cosa che non si è verificata nel CIC del 1917 (canone 221), dove era sufficiente una semplice rinuncia (senza indicare cosa), che mostra la volontà di differenziazione del precedente regime giuridico, al fine di chiarire questa vicenda, che tanti problemi ha dato al Diritto canonico dopo l’abdicazione di Celestino V.

In questo modo si può dire che ogni pontefice può esercitare il suo munus come vuole: chi ha viaggiato di più, chi meno, chi ha insegnato di più, chi meno, chi ha proclamato dogmi, chi no, ecc.

Così Benedetto XVI, dopo le sue apparenti dimissioni, si è dedicato maggiormente alla sofferenza e alla preghiera da papa, nel recinto di Pietro, ma ha anche partecipato attivamente alla vita pubblica della Chiesa, rilasciando interviste, scrivendo propri libri e prologhi ai libri di amici, tenendo discorsi, come quello indimenticabile all’Università Urbaniana (dove rimprovera Bergoglio, ricordando che il dialogo non può mai sostituire la missione); o quando scrisse quella magnifica Lettera alla Chiesa germana, nella Settimana Santa 2019, ricordando che i problemi di pedofilia nascondono in realtà problemi di mancata fedeltà al magistero della Chiesa, e la gravità dell’ intrinsice malum, per distruggere la possibilità che due persone che vivono in adulterio more uxorio possano recivere la comunione, citando Veritatis Splendor contro Amoris Laetitia; o tirando fuori un libro a favore del celibato con il card. Sarah quando Bergoglio ha voluto aprire la mano all’ordinazione dei viri probati dopo il Sinodo dell’Amazzonia, ecc. Al punto che alcuni subalterni di Bergoglio hanno fatto brutto Benedetto per essersi troppo intromesso nella vita della Chiesa, e che anche Bergoglio, in una celebre omelia, ha criticato «i pastori che si congedano a metà» (maggio 2017).

Pertanto, dal punto di vista tecnico-giuridico, munus e ministerium sono cose diverse, e questa distinzione è stata affermata in tutto il CIC del 1983, e al suo interno, nientemeno che nel can. 332.2, per volontà di Papa

Giovanni Paolo II (assistito dal Card. Ratzinger). Uno si riferisce alla posizione, di diritto umano o divino. E l’altro all’esercizio dello stesso. Rinunciando solo al ministero, la rinuncia di Benedetto era nulla, perché il munus non può essere separato dal ministero, e, quindi, mantenne sia il munus che il ministerium, anche se lo esercitò in menor grado, come si è detto menzionato. E questo, in termini puramente legali. Non c’è niente di complotto o dietrologia qui.

Inoltre, per analogia, si può dire che anche nell’atto di rinuncia si potrebbe applicare ciò che il CIC del 1983 stabilisce come regola comune a tutti gli atti amministrativi singolari del diritto canonico: che esso deve intendersi secondo il significato proprio delle parole, in senso stretto (canone 36.1).

TERZO ERRORE: MR. SISCOE RITIENE VALIDO E CORRETTO IL TITOLO DI “PAPA EMERITO”

Per questo, cita il canone 402.1. Tuttavia, questo canone si riferisce ai vescovi emeriti (per aver raggiunto l’età di 75 anni, per malattia o altra grave causa), titolo che possono ricoprire perché la loro rinuncia è accettata dal papa. Ma il titolo di “papa emerito” è legalmente impossibile per un papa. E questo perché il Codice di Diritto canonico ammette il titolo di “emerito” solo se è stata accettata la rinuncia all’incarico (munus).

Così indica il canone 185:

“Il titolo di “emerito” può essere conferito a chi ha cessato di ricoprire un incarico per raggiunta età o per rinuncia accettata”.

Poiché la rinuncia all’ufficio (munus) di papa non può essere accettata da nessuno (canone 332.2 CDC), non c’è spazio per un papa emerito.

Benedetto XVI era un ottimo conoscitore del Diritto canonico. Perché allora insisteva nell’usare quel titolo, consapevole com’era della sua impossibilità giuridica? Ebbene, secondo me, era un modo per dire, per chi vuole capire, ancora una volta, che era ancora Papa.

INFINE, Mr. SISCOE DICE CHE PER PREGARE E SOFFRIRE NON BISOGNA ESSERE PAPA

Vero, ma Benedetto XVI non ha rinunciato al papato, bensì al governo della Chiesa. Ricordiamo la sua importantissima omelia del 27 febbraio 2013, dove ha chiarito pienamente il vero significato della sua “rinuncia”:

Il “sempre” è anche un “per sempre” – non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro. San Benedetto, il cui nome porto da Papa, mi sarà di grande esempio in questo. Egli ci ha mostrato la via per una vita, che, attiva o passiva, appartiene totalmente all’opera di Dio.

L’esempio di san Benedetto fu quello del gran monaco, che fu tentato di farsi avvelenare dai suoi stessi fratelli della comunità. Dopo di che decise di lasciare il luogo e tornare a Subiaco.

CONCLUSIONE

Alla luce di tutto quanto indicato, possiamo dire che l’interpretazione della Declaratio di Benedetto XVI si illumina quando si osserva con onestà ciò che è avvenuto dopo di essa. La “mens” di papa Benedetto XVI non è mai stata quella di abdicare al pontificato, ma di fingere di dimettersi, di proteggersi dai lupi (come ha ammonito nell’omelia d’intronizzazione). Si trattava di una rinuncia nulla che può essere interpretata anche come dichiarazione di sede impedita, come ha spiegato in modo convincente Andrea Cionci.

Perché se si osservano le azioni e l’abbigliamento di Benedetto XVI dopo le sue dimissioni, si conferma che si considerava papa e che in realtà lo era, anche se non poteva esercitarlo correttamente, né dirlo apertamente.

Quindi, per cominciare, rimase a Roma e non tornò nella sua nativa Baviera o in qualche monastero poco appariscente. Poi, indossare l’abito bianco, con la scusa (reductio ad absurdum) che quel giorno non c’erano le tonache nere; continuare a dare la benedizione apostolica ed a firmare P.P. (cose che solo il papa regnante può fare); di non rinunciare all’uso del suo stemma pontificio, respingendo la proposta del card. Andrea Cordero Lanza di Montezemolo per farlo, ecc.

E, a proposito delle sue affermazioni, in diverse occasioni ha spiegato che la sua rinuncia o rassegnazione non fosse un’abdicazione: così, clamorosamente, quando nel libro “Ultime conversazioni”, con Peter Seewald, indicò che nessun papa si era dimesso come lui nel precedenti 1000 anni, e che anche nel primo millennio era un’eccezione. È evidente che in questi ultimi mille anni della Chiesa fino a quattro papi hanno abdicato dal papato, e che la stessa cosa è accaduta, fino a sei volte, nei mille anni precedenti. Questa eccezione, come ha raccolto Andrea Cionci, sembra riferirsi a papa Benedetto VIII, che é stato spostato da Roma dall’antipapa Gregorio VI, senza cessare di essere papa, anche se gli fu impedito di esercitare il suo ministero, fino a quando l’imperatore del Santo Impero romano-germanico, Enrico II, lo restituì al soglio pontificio.

Benedetto sembra voler indicare qui con queste strane affermazioni, come ha spiegato anche nel libro “Ein Leben”, usando parole diverse, che la sua rinuncia (Rücktritt) non è stata una valida abdicazione al papato (Abdankung).

Il suo abbigliamento, le sue azioni e le sue successive dichiarazioni spiegano con i fatti che l’intenzione di Benedetto, con la sua Declaratio, non era quella di abdicare o rinunciare al papato, ma piuttosto di fare una rinuncia o abdicazione nulla, rimanendo papa nel recinto di Pietro, essendo impedito per prigionia, relegazione o esilio (canone 412: ricordiamo come Benedetto XVI fu costretto a tornare a Roma senza permettergli di assistere alla morte del fratello Georg, come era sua volontà).

L’intenzione o mens legislatoris (il papa, qui) è presa in considerazione dal CIC come requisito essenziale per interpretare l’oscurità delle leggi ecclesiastiche (can. 17) e per molte altre questioni essenziali (cann. 241.1, 597, 646, 861.2, 869.2, 874.1, 996. 2, 1029, 1204, 1284, 1325 e 1329, ecc.).

Trattandosi di rinuncia nulla, l’atto era invalido, in quanto vi era in esso un sostanziale errore (can. 126 in rapporto al can. 188 CIC) di Benedetto (che ritengo deliberato, come meccanismo di fuga, di fronte all’usurpazione masónica della Chiesa), nella misura in cui ha influito sulla sostanza della rinuncia (per non aver rinunciato al papato o all’ufficio, ma al ministero petrino), e per non avere l’intenzione di abdicare (il che è confermato dall’abbigliamento, dai fatti e dalle dichiarazioni successive). Parimenti nulli, quindi, sarebbero il successivo conclave, dove fu eletto Jorge Mario Bergoglio, e la sua stessa elezione, perché nulla era la condizione sine qua non di entrambi: la reale esistenza di una sede vacante.


Antonio José Sánchez Sáez Professore Ordinario di Diritto Amministrativo Università di Siviglia (Espagna)


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