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Benedetta De Vito. Certe Formule, a Messa, mi Danno l'Orticaria...

ott 28, 2022

Carissimi StilumCuriali, la nostra Benedetta De Vito offre alla vostra attenzione queste riflessioni in una Roma quasi autunnale. Buona lettura.

Oh che bello mi sento meglio, mi sono detta, in punto esclamativo, un tre giorni orsono, alzandomi nel mattino ancora in palandrana nera, e finalmente pronta di nuovo a prender la santa messa. Così mentre chi amo pisolava ancora, mi sono vestita nel semibuio afferrando i panni del giorno prima. E ticchete tacchete, sul parquet del corridoio sono prima in bagno e poi già in cucina per il caffettino che mi fa persino la messa in piega. Poi via, senza neppure sbirciarmi allo specchio, infilando le scale, un saluto alla bella statuina che s’annoia tra un piano e l’altro, eccomi fuori dal portone. Intorno, sul corso del Rione Monti, c’è il solito disordine quotidiano. Sporchi i marciapiedi e le strade lì dove sono apparecchiate le automobili, si arricciano di cartacce appallottolate, lattine vuote e bottiglie che si coprono soltanto con le loro stanche etichette.

Ora snasate con me l’ambiente per come si sveglia Roma in un martedì d’ottobre. Nel bar di fronte, il viavai dei camerieri in danza che sistemano ombrelli, sedie e tavolini per chi verrà, in bella calma, a bersi caffè e cappuccino. C’è un camion carico di calcinacci e gli operai intorno ridendo e in maniche di maglietta pur essendo già quasi novembre. Gli altri negozi dormono e in giro c’è soltanto il senza dimora francese che conosco bene e che ora sta buttando, in bell’ordine, le spazzature sue. Io, indecisa sul dove andare a messa (tante sono le chiese e di ognuna conosco sacerdoti e abitudini), tengo ben al caldo  nel cuore gli orari delle Sante Messe. Ognuna fatta un poco e male a modo suo. Lì, così e così, ma c’è sicuramente il sacerdote tale oggi a celebrare, sì, quello che mi dà la Santa Particola solo se, puntando sui banchi i due gomiti, sollevo un poco le ginocchia e scodinzolo la testa come se giocassi a mordi la mela appesa al filo. Sì, penso e ripenso che in ogni chiesa c’è una nota che stride e provo a seguire il filo del ragionamento, ma prima urge una decisione: va bene, a lunghi e svelti passi, decido per Santa Maria Maggiore, dove, ed è grazia, si gode dell’anonimato. Ricordo e la capisco che anche la Beata Elisabetta Canori Mora, la mia dolce sorella d’anima, viveva un poco nomade di chiesa in chiesa. Forza, avanti.

Se recito, andando, la corona, non penso e m’immergo tutta quanta nei misteri che sono per me il sentiero della verità, altrimenti penso. E sono guai perché mi vengono in mente sane le cose tristi che vedo nelle chiese dove sembra, detto in breve, che manchi la fede. Si respira un’aria di fine corsa, sì, la chiesa in uscita pare che voglia uscire anche lei. Lo vedo dai gesti stanchi dei sacerdoti, dai musi un poco lunghi, dal poco o nulla entusiasmo nel riempir d’amore la liturgia che diventa meccanica, fredda, sbrigativa. Ecco, i sacerdoti mi sembrano persone come tutte le altre. Non li distingue più l’abbigliamento (ché a volte per accendere le candele sull’altare, sembrano tutti quanti sacrestani) e solo durante la Santa Messa indossano i paramenti e allora tornano belli e tutti del Signore. Anche quello che mi dà l’Ostia come si darebbe l’osso a un cane. Sì, mi infastidisce vedere i sacerdoti in borghese, lo ammetto…

Vorrei, io sola, salvar la chiesa, gridare basta a certe formule che mi danno l’orticaria. Basta con la rugiada, con il Padre nostro che tradisce le parole del Signore, basta con la cena dell’agnello e con quel fratelli e sorelle – errore di matita blu in grammatica italiana – che per me preannuncia un futuro di altri generi in cultura arcobaleno. Basta. Meglio recitare il Rosario ed eccomi a Santa Maria Maggiore, dove il celebrante, durante l’omelia, tesse le lodi di un non credente. E per fortuna che ci sento poco e neppure ho capito di chi parla. Esco e, fatti pochi passi, verso l’ambasciata argentina, incontro una cara amica con la quale divido il mio pensiero e mi lamento della Chiesa come è e di come vorrei che fosse e di come starci dentro (anche se sono fuori) è per me come pattinare nel deserto.

Parliamo anche di altro e poi, ciao ciao a presto e io, passetto passetto, salgo lungo la via Panisperna e verso casa. Lì dove siede la bianca chiesa dedicata a San Lorenzo, alta su due scalinate che si baciano in cima, c’è, ora sono anni mi pare, un pollaietto, con le stringhe color arancio di plastica penzoloni, che racchiude un piccolo cantiere.  Spavalda metto un piede sul fronzolo color arancio e mi ritrovo in volo e poi muso a terra. Lì distesa il mio pensiero: “Signore, ti ringrazio perché sono tutta intera”. Poi con una mano mi tasto il naso e i denti e non mi pare che ci sia sangue in giro.. Una voce amica mi chiama: “Signora, posso aiutarla?”. In automatico rispondo no grazie e sono già in piedi. Il mio pensiero di nuovo automatico: “Signore tu sei caduto con la pesante Croce addosso, questo è niente!”. E infatti, non mi sono fatta nulla, ma il Signore mi ha messo con la faccia a terra. Sì in umiltà, basta con i giudizi, accetta in tutto il bello e il brutto che ti arriverà, anche in chiesa e il brutto diventerà bello. In semplicità, come pecorella rosa, ferma in preghiera continua, docile e paziente, nelle Sue dolci mani e sarà Lui, se lo vorrà, a salvare la Sua Santa Chiesa.



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