Il personaggio in questione non è certo nuovo ad uscite, come dire, borderline quanto a tenuta dottrinale (indimenticabile quando definì la legge 194 sull'aborto un "pilastro della nostra vita sociale").
Tuttavia il recente intervento del presidente della Pontificia accademia per la vita sul suicidio assistito, pubblicato integralmente venerdì scorso dal Riformista, segna uno scarto importante.
Anzi, diciamo pure che la misura è colma.
Non c'è solo il placet di mons. Paglia ad una legge sul suicidio assistito quale "mediazione giuridica" (che però, ha tenuto a precisare la PAV in un comunicato, non significherebbe anche mediazione morale, affermazione che così a naso suona come la classica toppa peggiore del buco) con tutto che lo sanno pure i muri che la morale cattolica contempla azioni "intrinsecamente malvagie" - come appunto il suicido - che non possono in alcun modo cambiare connotazione anche in presenza di un fine buono o di circostanze particolari. D'altra parte, che il prelato in questione avesse idee un pelo stravaganti, per usare un eufemismo, sull'argomento si era già ampiamente capito in occasione della tristissima vicenda di Alfie Evans, quando in un'intervista a Tempi se ne uscì dicendo che la decisione dell'Alta corte londinese con cui vennero sospese la ventilazione e l'idratazione, ciò che di lì a poco provocò la morte del piccolo Alfie, in realtà aveva messo fine ad una situazione di "accanimento terapeutico".
L'aspetto se possibile ancor più problematico è quando in apertura del suo intervento il presidente della PAV afferma - pregasi allacciare le cinture - che la Chiesa cattolica "non è che abbia un pacchetto di verità pret-a-porter, preconfenzionate, come se fosse un distributore di pillole di verità. Il pensiero teologico si evolve nella storia, in dialogo con il Magistero e con il vissuto del popolo di Dio (sensus fidei fidelium), in una dinamica di reciproco arricchimento".
Non so se è chiaro: secondo mons. Paglia la Chiesa non è depositaria della verità, di una verità eterna che in quanto tale prescinde dalle epoche storiche (che poi la stessa verità vada "incarnata" in ogni epoca, secondo lo spirito di ogni vera riforma che è sempre rinnovamento nella, non contro nè tantomeno oltre la Tradizione, è altrettanto vero; a patto però di assumere la verità come metro e misura della reatà e non viceversa.
E sotto questo profilo la storia della santità è forse il miglior esempio della giusta dinamica verità/storia); dunque niente verità, c'è la teologia, il pensiero teologico che evolve dialogando con il Magistero e il vissuto del popolo di Dio (come se oltretutto fosse la teologia a dettare la linea). Naturalmente non è esattamente così che stanno le cose nella Chiesa.
Né tanto meno sta in piedi la tesi secondo cui il contributo dei cristiani si darebbe "all'interno delle differenti culture, nè sopra - come se essi possedessero una verità data a priori, nè sotto - come se essi fossero portatori di un'opinione rispettabile, ma svincolata dalla storia, "dogmatica", appunto, dunque inaccettabile".
Ma quando mai!
Sarebbe come ammettere, in linea con il principo cardine dello storicismo, che tutto è fluido, tutto è relativo, tutto cambia e si evolve.
Di modo che quello che valeva ieri, oggi potrebbe non valere più. Con buona pace di quel Galileo che disse "Io sono la via, la verità e la vita" (o forse anche lui era troppo "rigido"?).
Non ci siamo proprio.
Ma destinare il presidente della PAV ad altro incarico, magari su materie meno impegnative, no?
Luca Del Pozzo
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